Il Guerrin Meschino
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Il Guerrin Meschino. Frammento di un'opra dei pupi
Milano, Bompiani, 1993
Invito alla lettura
Spettatore infantile dell’“opra dei pupi”, poi garzone a bottega d’un pittore di paladini, Gesualdo Bufalino ebbe precocemente occasione di appassionarsi ai duelli, incantesimi, amori che vedeva fiorire ogni giorno sugli sportelli dei carri e sugli “scacchi” dei cartelloni. Più che il ciclista Girardengo e il terzino Calligaris, fu Guerrino il Meschino il suo idolo di quegli anni, da quando ne imparò le gesta in un’edizione popolare Salani. Dunque è quasi per sciogliere un voto della memoria che oggi il ragazzo di allora, nei panni d’un anziano cantastorie, guida il suo eroe di prova in prova alla ricerca del padre ignoto e d’una lenta maturità.
Nelle intenzioni un viaggio d’educazione travestito da fiaba cavalleresca. Viaggio e fiaba, però, s’interrompono a metà, lasciando molti fili sospesi, sotto l’urgere d’un tempo che crede poco ai miracoli della finzione e all’amabile gioco delle parti caro all’ipocrisia romanzesca. Abbandonato dai suoi personaggi, non resta così all’autore che arrendersi ai patemi dell’ora, così pubblici che privati, né valgono gli acerbi colori da miniatura e le nobili musiche dell’antico linguaggio a nascondere la cartapesta dei suoi scenari e la mise en abîme del suo cuore.
(Da Il Guerrin Meschino)
Lamento del vecchio puparo
Prima di ridurmi qui a stare
a un cantone di piazza Carbone,
di fronte al casotto delle vastasate,
dove per cinque centesimi a testa
conto la storia dei paladini
alle serve di passo, ai caporali in franchigia,
o fumo coi cocchieri il trinciato,
sfidandoli a chi sputa più lontano…
prima di ridurmi qui a stare,
nessuno mi poteva tenere,
ero un farfarello dai piedi di vento,
cavalcavo sauri che andavano
per Pasque e fiere d’estate
a Trapani, a Girgenti, a Castrogiovanni…
Camminavo in aria fra due palazzi,
mangiavo il fuoco, mangiavo le spade,
“Questa vince, questa perde,” dicevo ai villani,
gabbamondo delle tre carte…
M’è rimasto un fondaco d’ombre,
qui a un cantone di piazza Carbone,
e, più lunga, un’ombra che mi s’avanza nell’occhio
in forma di falce scura.
Ore e stagioni non mi parlano più.
I papaveri del sole, le giunchiglie della luna
sono appena una macchia che imputridisce sul muro…
Non si dovrebbe diventare vecchi.
Mi stropiccio le mani l’una con l’altra.
Sono due ghiacci ed erano due bestie calde,
sollevavano il fuscello e l’incudine,
carezzavano, facevano male.
Io non so chi mi ha tolto quelle mani.
Annaspano ora, imbrogliano i fili,
i pupi cascano da tutte le parti.
Un macchinista più scaltro
mi manovra con le sue mani,
sono io il suo pupo e filo.
Un giocoliere più antico
mi fa il gioco delle tre carte:
“Questa vince, questa perde,” mi dice
e fa volteggiare gli assi, r
rimescola i bussolotti.
Conosco il trucco ma, non so come,
scelgo sempre la carta sbagliata.
Non si dovrebbe diventare vecchi.
Avevo i denti d’un cane, trantadue pietre.
Scorgevo l’ago nel fieno, udivo crescere l’erba.
Con un ramo a forca indovinavo le acque.
Ai fianchi portavo una fascia rossa.
Una donna mi disse una volta ch’ero bello…
Ora la voce, ch’era tromba, flauto e tamburo,
suona unica per tutti i pupi,
cristiani e mammalucchi, vassalli e re di corona.
Il gemito dell’amante, il gemito del moribondo,
un’uguale tosse li recita…
Non si dovrebbe diventar vecchi.
Ormai confondo le gesta, dimentico le casate,
m’impennacchio di parole morte;
durlindane e olianti, non ci credo più.
La gente che viene è sempre di meno.
Ieri erano tre, stamani un solo bambino,
con un cartoccio di semi accanto.
S’è seduto sulla panca e aspetta,
ma forse ha solo male ai piedi,
fra un minuto se n’andrà.
Prima che se ne vada,
incominciamo.
Titolo | Traduttore | Note editoriali | Paese |
---|---|---|---|
El Güerrín Mezquino | Martha L. Canfield | Santa Fe de Bogotá, Norma, 1998 | Colombia |