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Submitted by admin on 1 October 2019
traduttore
‏Francesc Morfulleda i Caralt
note
‏Martorell, Adesiara
anno
2013
paese
Spagna [lingua catalana]
opera

La luce e il lutto

Gesualdo Bufalino - La luce e il lutto

La luce e il lutto
Palermo, Sellerio, 1988

Invito alla lettura

Ho scritto molto sulla Sicilia, negli ultimi anni. Più dell’antica che dell’odierna, più dell’amabile che dell’amara. Non perché non vedessi o non patissi l’intreccio di frode e violenza che sempre più pare presiedere al nostro destino, ma per un sentimento d’incompetenza e d’inanità, dal quale, se una regola m’era possibile trarre, era di non promuovermi giudice o pedagogo, chirurgo o clinico della mia gente ma di sommessamente capirla.

M’è venuto detto una volta d’avere imparato a non rubare ascoltando Mozart. Non suggerisco ora quartetti e sonate contro i mali dell’isola. Però resto convinto che, a guarire l’analfabetismo morale da cui (non solo noi, non solo noi) siamo afflitti, possano un poco servire, sebbene fatti d’aria, anche le nostalgie, le favole e i sogni. Operi dunque ciascuno come meglio riesce: chi da coscienza critica e avvocato di tutti; chi da testimonio privato e tragediatore di sé. Così io per primo, in questo libro, che pur insegue, attraverso lievi e gravi occasioni di costume, viaggio e memoria, un’idea di Sicilia iperbolica, doppiamente gonfia di vita e di morte, ancora una volta ho più proposto emozioni che non esposto ragioni. Lusingandomi che quelle sappiano non meno di queste spiegarci agli altri e, prima che agli altri, a noi stessi.

 

(Da La luce e il lutto)

Comiso città teatro

Come in qualunque paese, si può arrivare a Comiso dai quattro punti dell’orizzonte. Ma per noi che qui siamo nati, e qui viviamo, è come se Nord e Sud, Est e Ovest non esistessero: il centro della nostra piazza è il cuore spalancato della rosa dei venti, l’ombelico e il polo solitario dell’universo. Non perché questo luogo sia più bello o umano o civile di altri, ma perché a noi piace credere che lo sia, e pretendiamo che ognuno lo creda, a dispetto dell’amara recente fama che ci minaccia. Una bella pretesa, ma chi viene quaggiù (per carità, non in treno: impiegherebbe da Catania quasi più tempo che da Catania a Roma!) si rassegni a perdonarcela, si rassegni alle carenze alberghiere (può andare a dormire da pascià, a quindici minuti d’auto, fra i pini di Chiaramonte) e in cambio si goda lietamente il cantuccio di pietre e d’aria che gli mettiamo a disposizione. Comiso gli apparirà divisa a mezzadria fra monte e pianura: per matà sparsa sulle più giovani propaggini degli Iblei, per metà digradante – ma con educazione, senza far fretta a nessuno – verso le ghiaie dell’Ippari e la piana di Vittoria. Là, vicino al mare, è il regno delle serre, delle plastiche bianche, che, se il tramonto le tocca, fiammeggiano come un incendio di fascine lontane. E là si combatte la guerra del sudore e del guadagno. Mentre a Comiso appartiene un destino di leggenda e di opra dei pupi, qui non c’è un marciapiedi dove non venga voglia di farsi prestare una sedia e sedersi a guardare. Poiché Comiso è una città-teatro, un carro di Tespi ambulante, arenatosi, come una paranza di Donnalucata, sul primo dosso asciutto che s’è trovato davanti. Questo spiega l’aria di volubile invenzione e improvvisazione scenica che si sente circolare ovunque.
La stessa planimetria urbana, così mossa e pittoresca nel suo intreccio di saliscendi e gradoni, appare come uno scenario già disposto, offerto alle sorprese e alle peripezie dello spettacolo. Strade come quella di San Leonardo, prigioniera fra due siepi di ballatoi giganteschi; viuzze come le tante che riversano i loro ruscelli di scale fin sul Corso della Grazia: slarghi e sagrati dall’avventuroso profilo, come quelli delle due chiese nemiche, del Municipio, del Mercato; vie e piazze tutte sembrano proporsi come fondali e quinte ideali per i quotidiani mimiambi della vita cittadina. Qui, infatti, ogni persona tende senza sforzo a diventare personaggio; ogni gesto si accalora e si illumina di enfatico fuoco. Recita il venditore all’aperto quando decanta la propria merce e provoca con improperi e strambotti il cliente; recita il bevitore impegnato a un tavolo d’osteria nell’antico gioco del “tocco”, dove beve solo chi vince, chi alterna meglio la parata e l’affondo nella prevista scherma di motti, promesse, ipotesi, scherni, declamazioni. E non somiglia a un duetto drammatico quello che si dibatte ogni mattina, fra le comare e l’ambulante, mentre entrambi tirano, da una parte e dall’altra, sul prezzo? E il sensale che sollecita, implora, s’inginocchia, bestemmia, afferra per il braccio ora l’uno ora l’altro dei due recalcitranti non sembra seguire un vetusto, ma sempre divertente copione? E il mendicante? E l’innamorato? Tanto più evidente risulta questa vocazione alla pantomima nelle occasioni più intense della vita cittadina: le feste religiose e le sfide elettorali. […]

Riedizioni e ristampe

Palermo, Sellerio, “La memoria”, 1996.
Roma-Palermo, Editori Riuniti/Sellerio, “Tracce”, 1997.
copertina