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Il fiele ibleo

Gesualdo Bufalino - Il fiele ibleo

Il fiele ibleo
Cava dei Tirreni, Avagliano, 1995

Invito alla lettura

Celebravano gli antichi poeti la dolcezza del miele ibleo. Tornando a discorrere della Sicilia e dell’amico Sciascia, che di essa è stato l’interprete più pungente, Gesualdo Bufalino rovescia l’antico motto, giovandosene a definire, dietro le lusinghe della luce mediterranea, le resistenze della tenebra e le multiple passioni della sua gente. Ne risulta un libro-mosaico, nato da occasioni maggiori e minori, ma ininterrottamente soggetto a quello spasimo stilistico ch’è lo stemma più visibile dell’autore.

 

(Da Il fiele ibleo)

Istruzioni per l’uso della Sicilia

[…]
Il Mediterraneo ha un cuore. Questo cuore è un’isola di nome Sicilia. Qui affluisce, da qui si dirama il pingue sangue della civiltà in cui siamo cresciuti e crediamo. Sarà stata la posizione geografica, che, com’è noto, dirige in larga misura il carattere e il progresso d’un popolo; saranno state le peripezie dell’isola, secolare calamita di mille brame, crogiulo di mille miscele, laboratorio dove si son compiuti gl’innesti più fertili d’una cultura su un’altra; dove dalle specie più varie si è generata un’inconfondibile gente dai molto vizi e dalle molte virtù… certo è che, così nel bene come nel male, nessun altro luogo d’Europa, e forse del mondo, appare altrettanto carico di destino.
Qui ogni esercito, venuto a invaderci dai quattro punti dell’orrizzonte, ha lasciato – negli umori, nel costume, nella lingua – una traccia del suo passaggio: il Nord normanno, il Sud saraceno, l’Occidente aragonese, l’Oriente greco…
Basterebbero i nomi dei miei tre compagni di briscola, ieri sera: Catalano, di chiara origine iberica, Sciarabba, che in arabo vuol dire “forte bevitore di vino”; Guizzardi, che è, mutato di poco, il francese Goussard e fa pensare a Roberto il Guiscardo…
C’è da meravigliarsi se abbiamo accolto il meglio e il peggio d’ogni razza, i doni più generosi, le più cruente ferite (ogni dono fu una ferita, ogni ferita fu un dono)? In tutti i casi un’eredità che non si cancella. La Grecia ci ha educato al gusto della luce, dell’armonia; ci ha insegnato a erigere contro la volta celeste la forza pura delle colonne; ma ci ha insegnato anche a correggere le estasi della ragione con le spine dell’ironia, a ravvisare dietro al volto radioso di Apollo la smorfia ebbra di Dioniso…
I Mussulmani ci hanno portato un profumo di giardini d’Oriente, di leggendarie Mille e una Notte; ma anche un seme di esaltazione fanatica, un’abitudine alla frode e alla voluttà…
I Normanni (troppo alti perché gl’indigeni potessero colpirli altrimenti che con un coltello!) hanno aggiunto alla nostra panoplia la spada della fedeltà, del coraggio, della severa coscienza.
Gli spagnoli ci hanno contagiato l’iperbole e la superbia , il fasto delle parole e dei riti, la magnanimità del gesto cavalleresco, ma, con essi, il sapore della cenere e della morte… Prima e dopo di loro, quanti altri! Fenici, Angioini, Austriaci, Piemontesi… E da ognuno abbiamo appreso una qualità che servisse con le altre a comporre l’impasto straordinario del nostro essere. Un impasto che ci rende riconoscibili fra di noi per un legame comune e ci divide dagli altri.
Mai però al punto di rischiare d’omologarci in un’anonima aggregazione; poiché, al contrario, non esiste comunità dove l’individuo appaia così radicalmente irripetibile, così unico, così se stesso…
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